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Riflessioni su Lou Reed @Firenze nel 1980

today8 Maggio 2017 155

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Credo che non potesse esserci notte migliore che quella d’insonnia in un albergo per imbattersi in uno svogliato zapping per caso (ma poi non tanto, nell’anniversario di morte di Lou Reed, 27 ottobre) nel suo concertone al parco delle Cascine di Firenze. Correva l’anno 1980 ma mentalmente si era ancora nei Settanta. Barricati di ideali di lotta, di collettività (forse già più musicale che politica) ma un collettivo unito ed esteso su km di prato e di grandi iniziative sociali e di partito.
Le chiamavano feste de l’Unità.
In una notte insonne e avara di sogni a Genova, appare lui e penso che “qualcuno mi vuole bene” per non farmi pensare troppo. Sotto le finestre chiuse ma rumoreggianti di traffico, di chiazze di luci sul soffitto e di porto, scorrono subito Waiting for My Man, Coney Island Baby e a tu per tu con la musica, si fa importante questo ascolto privato. Potrei dormire, spegnere e sentirlo in ogni momento con youtube, con il telefono, con tutto. Noi siamo la generazione dell’Open Access e della condivisione subito di tutto, eppure non cogliamo quasi mai proprio alcun momento utile alla condivisione. Talvolta le circostanze sono l’effetto di sintomatico download dell’esperienza più
potente che ci possa capitare e bisogna farlo proprio subito, la connessione si perde in fretta.
Mi accorgo che rai5 non trasmette uno spezzone a caso ma un mega concerto. Paiono la fine degli anni Settanta, attorno alla metà: ragazzi quasi tutti a torso nudo, camice a quadri, capelli lunghi, camice bianche le ragazze, capelli bagnati dai gavettoni estivi e riconosco le Cascine e Lou Reed che fra molte date italiane approda in concerto a Firenze il 14 giugno 1980. Questo non potevo saperlo, ma la data all’incirca me l’ero immaginata dall’ascolto di brani cult da Vicious a Walk on the Wilde Side. Il sonno non viene ma arriva una dolcezza senza pari, che a dirla con un verso di Lou Reed “ti colpisce con un fiore”: e per la prima volta ascolto Caroline Says e sembra parlarmi.
Come ci si debba sentire a tagliare un traguardo simile non so, ma credo lui da musicista lo avesse capito. I suoi pezzi erano conversazioni da bancone alla gente di strada da Power of Positive Drinking, una voce regalata alla beat generation, ai poeti maledetti dei bassifondi di New York.
S’interrompe la prima parte del filmato e le Cascine sono un fiume incredibile di ragazzi di ogni età, di rumori. Volti, facce che ti viene inevitabilmente voglia di pensare cos’avranno fatto della loro vita, che è fissata alla bacheca di quel momento della storia del rock. Un articolo del 2008 rievocava nostalgico su Repubblica questa esibizione fiorentina di Lou Reed che voleva una bistecca e partirono alcuni ragazzi su un Ciao per portargliela e fargli cantare contento Walk on The Wilde Side.

“..senza sapere che quella era una terra selvaggia per davvero. Un mondo a parte: bello, oscuro. E imprendibile. “. “Era il 14 giugno 1980. Era la Firenze da sbevazzare. E ballare. E le Cascine vivevano un’ allegra nuova giovinezza. Tutto era ricominciato a metà settanta, quando il Pci pareva conquistare il governo, il mondo e intanto iniziava a stendere il suo Festival dell’ Unità sulle verdi terre sistemate tra il ponte alla Vittoria e chissà dove, per un perimetro di sette chilometri che se fai tre giri sei pronto per la mezza maratona. Quando Berlinguer parlava di compromesso storico anticipando di trent’ anni i suoi vispi eredi, tu ragazzotto liceale, per dimenticarti i flautini degli Inti-Illimani, dovevi arrivare làggiù allo stand dei trapanesi, quelli col vino a sedici gradi a duecento lire al bicchiere. “.

Molti pezzi in apertura alle Cascine non erano i suoi celebri must e non pochi citano la crescita, l’infanzia, il ruolo genitoriale. Ascolto Kids, strano, penso. Leggo la vita di Lou Reed e capisco. La forza trasgressiva, l’energia creatrice, l’onda d’urto che sia puoi solo rafforzarla se si infrange su una barriera più alta. Lui ragazzo, americano di origini ebree, ha dovuto attraversare quella dei suoi genitori, prodotto di un bigotto perbenismo americano che uccide i propri figli in questa anormale bella normalità. The American Beauty: Kill Your Sons canta ancora. Questa crudezza di intenti, questa trasposizione di vita vissuta sono i testi di Reed. Il concerto si interrompe per dar voce ai ragazzi, tra i fiorentini tanti toscani, tra loro tanti altri italiani. Parla un fiorentino con ciocca bruna di lato e Rayban a goccia. Il cronista toscano che lo intervista sembra un’incredibile trasposizione di Dave Grohl, il cantante dei Foo Fighters, nei panni del comandante di volo del video Learn to Fly. Detto questo le domande al giovane al concerto sono:
– Tu ti identifichi nella musica di Lou Reed? Risposta: Sì. Descrive una realtà metropolitana.Si esprime un disagio sociale giovanile. Un altro risponde: Io non lo sento.
– Altra risposta : secondo me siamo qui per il personaggio..
– Continua il cronista, rivolto ad un ragazzo del Sud, capelli lunghissimi e piatti sul volto, monociglio e sguardo un po’ perso e timido..
– domanda: Tu da dove vieni?
– Risponde che viene da una città del Meridione..(Bitonto, Barletta, non ho fatto in tempo ad appuntare). Dice che ” da noi si vengono a esibire solo cantanti melodici”..(cita nomi sconosciuti ai più oggi come allora) e che è venuto fino a Firenze, per lo meno in Italia perchè nel suo paese Lou Reed non ci verrà mai. Eppure la sua è la risposta forse più vera del tempo: “Se siamo qui è per un segnale di protesta di giovani che vogliono aggiornarsi
anche musicalmente. La musica è un messaggio importante di cambiamento sociale.”

La telecamera si muove spasmodica sulla folla di luce gialla, la luce delle cose passate. Due ragazze ballano in trance ascoltando Vicious, i ragazzi invece sotto il palco ascoltano pure rapiti. A ridosso delle barricate mi colpisce in particolare lei che inquadra il cantante e sta scattando una foto che chissà se esiste ancora, se è mai venuta bene e ora dov’è, lei e la foto. Nel 1980. Ed io nel 2016 in una stanza d’albergo di Genova, scatto la foto a lei, che scattava a Lou Reed. Questione di scatti e di istantanee da un passato prossimo in un futuro molto approssimato.
Concerto estivo. Ragazzi con la testa sotto l’acqua alle fontane, i capelli lunghi bagnati delle ragazze. L’ultima canzone è Street Hassle. Partono spesso, mentre Reed canta, delle lunghe inquadrature sul suo corpo teso e dinamico per lo sforzo, sotto una t-shirt nera aderente, madido di sudore sul volto, ma ispirato dalla forza delle sue canzoni. Tanto che mani e gambe non fanno che tamburellare sulla coscia e muoversi disperatamente da ferme per cantare con la voce ogni strofa.
Ecco la sua parte forse più folk e diretta, chitarra a tracolla e occhi chiusi. Ed effettivamente la telecamera gira e inquadra immagini delle sue canzoni fatte persone: voci, colori, suoni, correre, colpire, gente di strada e selvaggia. Let me introduce you the band..note finali. Per ultimo lui: “My name is Lou Reed”. In un italiano maldestro ma convinto saluta con un “Grazz”.

Egle Radogna

Written by: Redazione

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